ALTRAINFORMAZIONE

Posts Tagged ‘Immigrazione

Segnalo una parte dell’intervento domenicale di Eugenio Scalfari su Repubblica, secondo me particolarmente significativo.

23.08.2009
Perché i pescherecci che avvistano barche di migranti in difficoltà non intervengono? Risposta: se sono in difficoltà superabili, intervengono, forniscono viveri acqua e coperte, indicano la rotta. Se sono in difficoltà gravi, li segnalano alle autorità italiane.
Segnalano sempre? Risposta: non sempre.
Perché non sempre? Risposta: se imbarchiamo i migranti sui nostri pescherecci rischiamo di perdere giorni e settimane di lavoro. Noi siamo in mare per pescare. Con gli immigrati a bordo il lavoro è impossibile.

Non siete risarciti dallo Stato? Risposta: no, per il mancato nostro lavoro non siamo risarciti.
Ci sono altre ragioni che vi scoraggiano? Risposta: chi prende a bordo clandestini e li porta a terra rischia di essere processato per favoreggiamento al reato di clandestinità. Temono di esserlo, perciò molti chiudono gli occhi e evitano di immischiarsi.

Se li portate a Malta che succede? Risposta: peggio ancora, ci sequestrano la barca per mesi e ci tolgono l’autorizzazione a pescare nelle loro acque.
Questi sono i risultati di una legge sciagurata, salutata non solo dalla Lega ma dall’intero centrodestra come un successo, una guerra vittoriosa contro le invasioni barbariche.

Questa legge dovrebbe essere abrogata perché indegna di un paese civile. Nel frattempo gli immigrati entrano a frotte dai valichi dell’Est. Non arrivano per mare ma in pullman, in automobile, in aereo, in ferrovia e anche a piedi. Alimentano il lavoro regolare e quello nero in tutta la Padania e non soltanto.
I famigerati rom e i famigerati romeni vengono via terra e non via mare.
La vostra legge non solo è indecente ma è contemporaneamente un colabro

30.05.2009
Sotto accusa il governo: «Non rispetta il diritto d’asilo»
Rimpatri forzati, rischio xenofobia, violazione del diritto d’asilo. L’Italia descritta nel Rapporto 2009 di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo è un paese sconfortante. A Roma per presentare il Rapporto e la nuova campagna «Io pretendo dignità», Christine Weise, presidente della sezione italiana di Amnesty fa il quadro della situazione. Punta il dito contro la nuova politica dei respingimenti inaugurata dal governo tra il 7 e l’11 maggio, quando circa 500 migranti e richiedenti asilo sono stati condotti forzatamente in Libia senza alcuna valutazione sul possibile bisogno di protezione internazionale degli stessi. Una decisione senza precedenti. Una politica contraria al diritto internazionale d’asilo e una palese violazione dei diritti umani. Nella Sala Igea dell’Istituto della Enciclopedia Italiana gremita di giornalisti Christine Weise accusa: «L’Italia sarà ritenuta responsabile di quanto accadrà ai migranti e richiedenti asilo riportati in Libia». Un paese che, osserva Amnesty, non ha una procedura d’asilo e non offre protezione a migranti e rifugiati. Un luogo da dove arrivano «persistenti rapporti di tortura e altri maltrattamenti nei confronti dei richiedenti asilo». I rimpatri in Libia violerebbero così le norme in materia di refoulement, che garantiscono ai migranti il diritto a non essere rinviati in paesi dove possono essere perseguitati o torturati.
Un disprezzo della dignità umana ben esemplificato dal caso Pinar, la nave cargo turca che il 16 aprile ha messo in salvo 140 migranti e richiedenti asilo, lasciata per quattro giorni in balia del mare. Attardandosi in disquisizioni di diritto marittimo con Malta su quale dei due stati dovesse ospitare i migranti, i governi di Roma e La Valetta hanno anteposto la politica al salvataggio delle vite umane che in quel contesto rappresenta la priorità assoluta. Tutti fatti che descrivono lo sviluppo di una cooperazione tra Italia e Libia che, scrive Amnesty, negli ultimi 10 anni è stata portata avanti da governi di diverso colore. Cooperazione caratterizzata da «scarsa trasparenza e da nessuna condizione posta al governo di Tripoli sui diritti umani». E che ha visto protagonisti in prima persona Massimo D’Alema, Piero Fassino, Giuseppe Pisanu e Giuliano Amato, quest’ultimo ringraziato poco prima, nel ruolo di presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, per aver concesso l’uso della sala per la presentazione. Una mediazione senza risultati se sottolinea Amnesty, l’Italia «non ha risolto la questione della legittimità della detenzione dei migranti e dei richiedenti asilo».
I respingimenti sono però parte di una politica più generale portata avanti dal governo contro quella che viene definita la «percezione di insicurezza». Si tende a criminalizzare l’immigrazione creando così, come Amnesty ha più volte sottolineato, «un impatto pericoloso sui diritti umani». Norme come quella che indica un aggravante generica del reato l’essere un irregolare creano allarmanti conseguenze sulle condizioni di vita dei migranti. Sentendosi costantemente sotto minaccia si terrebbero lontano da scuole, strutture sanitarie e uffici pubblici, con gravi ripercussioni sul loro diritto all’istruzione, alla salute, all’identità.
Un clima intimidatorio del quale sono già vittime i rom e i nomadi. Il Rapporto guarda con grande preoccupazione alle misure d’emergenza che, dal maggio 2008, criminalizzano le popolazioni nomadi sostenute da una retorica anti immigrati e anti rom. Preoccupano soprattutto gli sgomberi forzati. Condotti senza garanzie simili misure «sono una violazione dei diritti umani, in particolare del diritto a un alloggio adeguato».
Il Rapporto è inoltre l’ennesima occasione per ricordare l’assenza del reato di tortura nel ordinamento italiano. Un’assenza resa ancora più palese dalle motivazioni per la condanna in primo grado degli agenti e medici accusati delle violenze contro i manifestanti durante il g8 di Genova nel 2001. Gli imputati sono stati infatti condannati per reati minori come l’abuso d’ufficio, proprio perché il codice penale non prevede il reato di tortura. Un’assenza che Amnesty denuncia dagli anni ottanta.

16.04.2009
Probabile che Matteo Salvini, il leghista che chiede posti prioritari per i milanesi sul metrò, sappia nulla di Rosa Parks e della sua storia lucente. Rosa Parks era una donna nera di Montgomery, Alabama. Quando l’1 dicembre 1955 decise di sedersi in uno dei posti dell’autobus riservato ai bianchi, aveva 42 anni. Lavorava come sarta in un grande magazzino. Stava tornando a casa e aveva avuto una giornata dura. Rimase seduta per una manciata di fermate. Poi salirono dei bianchi. Il conducente le ordinò di alzarsi. E lei, che lo aveva fatto mille altre volte, rispettando la legge dell’Alabama che riservava ai negroes gli ultimi posti in fondo all’autobus, decise di disobbedire: “Non mi alzo”. Il conducente fermò l’autobus, chiamò due poliziotti che arrestarono Rosa Parks.

Per protesta la comunità afroamericana, guidata dal giovane reverendo Martin Luther King, decise che nessun nero sarebbe più salito sugli autobus di Montgomery, fino a quando non fosse stata cancellata la segregazione razziale. Il boicottaggio durò 381 giorni. Durante i quali tutti i neri andavano a piedi, oppure in automobili strapiene, oppure in bicicletta, e gli autobus vuoti rimanevano nelle rimesse. Il 19 dicembre 1956 la Corte Suprema degli Usa – su richiesta dei difensori di Rosa Parks, condannata a 10 dollari di multa – dichiarò incostituzionali le leggi della segregazione. Il giorno dopo Martin Luther King e il reverendo bianco Glen Smith salirono sull’autobus e si sedettero uno di fianco all’altro. Oggi quell’autobus è in un museo, Rosa Parks sta nel cielo dei giusti, Obama abita alla Casa Bianca, e Matteo Salvini fa il capogruppo della Lega a Milano.

Pino Corrias

E’ un articolo decisamente di parte, che secondo me riporta una verisone dei fatti forse un po’ troppo parziale, ma può aiutarci ad avere una visione più globale dei fatti con notizie da fonti alternative a quelle “ufficiali” dei Tg.

22.04.2009
Alessandro Braga
Li cacciano dal residence, li picchiano sui binari del treno, li picchiano in autostrada. L’odissea di trecento richiedenti asilo africani che avevano occupato uno stabile alla periferia nord di Milano e che si sono rifugiati nel parco dell’ex psichiatrico Pini

Christian non parla italiano. Anzi, non parla proprio. Ha sei mesi, è nato in Italia. I suoi genitori sono arrivati qui un paio d’anni fa dal Corno d’Africa. Ragioni umanitarie. Un alloggio temporaneo per i primi tre mesi, poi la strada. Qualche riparo di fortuna. Fino a venerdì scorso, quando hanno deciso, insieme ad altri rifugiati, circa trecento, di occupare un vecchio residence fatiscente a Bruzzano, estrema periferia nord di Milano. Quattro notti al freddo, senza corrente elettrica, gas. Poco cibo, un po’ d’acqua. Da ieri non possono stare più neppure lì. Perché le nostre «beneamate» forze dell’ordine li hanno cacciati anche da quella topaia, su richiesta della proprietà, un’immobiliare il cui titolare è inquisito per truffa. Si guarda in giro Christian, con due occhioni sbarrati, neri come il carbone. Non capisce quello che è successo ieri. Purtroppo e per fortuna. Purtroppo perché avrebbe capito che il suo papà ha manifestato, ha rischiato di prendersi manganellate in testa (quelle che alcuni suoi compagni si sono prese), per difendere i propri diritti. Per fortuna, perché altrimenti si sarebbe vergognato di essere nato in Italia, «civilissimo» paese del ricco mondo occidentale. Un paese tanto civile che non trova di meglio da fare che prendere a manganellate chi chiede solo che gli venga dato quello che gli spetta. Ieri, se ce ne fosse ancora bisogno, ne ha dato l’ennesima prova.
Otto e trenta. Davanti al residence è già schierato il cordone di polizia e carabinieri. Lì non entra più nessuno. Neppure quelli che ci hanno passato la notte, e sono usciti per recuperare un po’ di cibo, acqua, per bersi un caffé al bar lì vicino. È la prima «scrematura». Nel corso della giornata, utilizzeranno altri mezzi per «scremare»: quelli più consoni a chi dimentica, o vuole dimenticare, che viviamo (ancora) in uno stato di diritto. I manganelli. Intanto chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Invisibili, inesistenti. Sebbene il giorno prima li avessero censiti tutti. Scoprendo, con somma sorpresa del vicesindaco De Corato, che lì, di «maledetti clandestini», non ce n’erano. I freddi numeri della questura parlano di 299 persone, più due bambini. 230 eritrei, 44 etiopi, 22 sudanesi, un somalo, un ghanese e un nigeriano. Tutti con permesso di soggiorno rilasciato per motivi umanitari, richiedenti asilo politico. Delle loro storie, a loro non importa niente. Storie di guerra, di fughe dalla povertà. «Ho 30 anni, dovrei essere un padre, un marito – dice Asheid – invece non posso neanche sognare un futuro».
Il Comune di Milano in mattinata ha incontrato una delegazione dei rifugiati, gli ha fatto la sua proposta: qualche posto, circa un centinaio, nei dormitori della città, strutture protette per le donne. Briciole. Che poi, dopo un certo periodo, sono ancora tutti per strada. Non ci stanno: non vogliono elemosina, vogliono vedere riconosciuti i loro diritti. Solidarizzano tra loro, e non ci stanno a vedere spezzata la loro unità. Per questo cercano di rientrare nel residence. Non li fanno entrare. Allora occupano i binari della ferrovia. Fermano un treno. Un funzionario della polizia intima di sgomberare i binari, altrimenti «si prenderanno provvedimenti». È la prima avvisaglia di quello che sarà. I ragazzi si sdraiano sulle rotaie, mani alzate in segno di pace. Lo urlano pure: «Vogliamo pace, vogliamo diritti». I celerini partono: li strattonano, li trascinano sui sassi della ferrovia. Qualcuno si fa male. E ci mancherebbe: alcuni vengono trascinati di peso, ammanettati, identificati. Qualche calcetto, tanto per tenerli tranquilli, ci scappa. Gli altri vengono spinti verso la stazione di Bruzzano, fuori dai binari. Le Ferrovie Nord potranno dire che «a mezzogiorno il traffico ferroviario ha ripreso ad essere regolare». Contenti loro. Dopo il «pranzo», qualche cibaria portata lì in qualche modo, di nuovo scontri. I rifugiati vogliono riunirsi ai loro compagni davanti al residence, prendere una decisione tutti insieme, la risposta delle forze dell’ordine è la stessa: i manganelli.
«Andiamo in Svizzera, quello si che è un paese civile», dicono i rifugiati. Detto fatto. Ai giardinetti di fronte all’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini fanno un’assemblea. Loro, la democrazia partecipativa sanno cos’è. La decisione viene confermata: Svizzera. Per chi è abituato alla guerra, cinquanta chilometri a piedi non sono nulla. E allora via, in corteo, verso la superstrada Milano-Meda. Direzione Lugano. «Yes we can, yes we can!», scandiscono. Loro possono, alla faccia di Penati e De Corato. Sulla superstrada ci arrivano. E la bloccano. Vogliono andare in Svizzera, non scherzano. Parte la nuova carica, stavolta più violenta. Un ragazzo si ritrova con la guancia aperta in due da un manganello. Una giovane donna si tiene la mano livida. Un altro, ha un bozzo sulla fronte. Si torna verso i giardinetti. La tensione sale. Si fa strada l’idea di andare a Milano, in centro. Altri insistono: la Svizzera è di là. La polizia, ancora una volta, dà il «meglio» di sé: carica di nuovo. Un ragazzo cade a terra, esce sangue dalla testa. Altri vengono pestati. Arriva un’ambulanza. Ma i rifugiati ormai hanno paura, e non vogliono nemmeno farsi curare da chi, lo stato italiano, poco prima li ha presi a bastonate. Urlano «fascisti», «assassini» a chi di fronte a loro resta impassibile, dietro caschi e scudi. Si torna verso i giardinetti, sempre scortati dagli «angeli custodi» in tuta blu. C’è una nuova assemblea: quello che si decide, è top secret. Parlano in aramaico, non vogliono che altri capiscano. «Altrimenti poi lo dite alla polizia, e quelli ci aspettano di nuovo con i manganelli». Hanno paura. Alla fine decidono che, almeno per la notte, restano lì a dormire. Ma, dicono, «non è finita». La battaglia per vedere riconosciuti i loro diritti non la vogliono abbandonare: «Siamo rifugiati, chiediamo al governo italiano di rispettarci». Christian si guarda intorno, non capisce quello che è successo. Non è l’unico.

Al fondo di questo articolo (cliccando su “Leggi il seguito di questo post”) trovate due video di cui vi consiglio la visione per avere una visione un po’ più ampia dell’accaduto: nel primo un servizio del Tg1 riporta la notizia degli scontri nel centro; nell’altro il sindaco di Lampedusa espone le sue critiche alla struttura del CIE e alla gestione del problema immigrazione.

RAGUSA, 15 aprile 2009
Per la prima volta parlano i detenuti del Cie di Lampedusa. Sono più di 600 tunisini e un centinaio di marocchini. Rinchiusi da oltre tre mesi in condizioni inumane. Denunciano pestaggi delle forze dell’ordine per sedare la rivolta il giorno dell’incendio, lo scorso 18 febbraio. Ma anche le indegne condizioni di sovraffollamento e la diffusa somministrazione di psicofarmaci per sedare gli animi.
Manganellati dalla polizia, “senza pietà”. Ferite alla testa, fratture alla mano e contusioni alle gambe. Per la prima volta, parlano i detenuti del Centro di identificazione e espulsione (Cie) di Lampedusa. Sono più di 600 tunisini e un centinaio di marocchini. Rinchiusi da oltre tre mesi in condizioni inumane. Siamo riusciti a raccogliere le testimonianze di alcuni di loro. Siamo certi della loro identità, ma ci hanno chiesto di parlare sotto anonimato per evidenti ragioni di sicurezza. Denunciano pestaggi delle forze dell’ordine per sedare la rivolta il giorno dell’incendio, lo scorso 18 febbraio. Ma anche le indegne condizioni di sovraffollamento, la diffusa somministrazione di psicofarmaci per sedare gli animi e la convalida differita di provvedimenti di trattenimento che non hanno tenuto conto delle settimane pregresse di detenzione. Un ritratto a tinte fosche che fa luce sul lato oscuro delle politiche del Governo sull’immigrazione a pochi giorni da un’importante scadenza. Il 26 aprile infatti scade il decreto 11/2009 che aveva prolungato da due a sei mesi il limite della detenzione nei Cie. Senza un nuovo provvedimento, i 700 detenuti sull’isola torneranno in libertà. E potranno raggiungere – seppure clandestinamente – i familiari che li aspettano da mesi, in Italia e nel resto d’Europa. Se invece, come probabile, il Governo tornerà a prolungare i termini di detenzione, torneremo a sentire storie come queste.
La denuncia dei pestaggi.Ci hanno picchiato coi manganelli, ci hanno lanciato gas lacrimogeni. E noi eravamo senza niente. Eravamo in un angolo, e c’era gente che dormiva ancora. Una cosa mai vista”. Mo. ricorda così la mattina del 18 febbraio 2009. Quel giorno un incendio distrusse completamente uno dei padiglioni del Cie di Lampedusa. Il fuoco venne appiccato da alcuni detenuti tunisini, in risposta alle cariche della polizia – più di un centinaio di agenti in tenuta antisommossa – che avevano ferito diverse persone. F. ha assistito alla scena: “Li hanno trattati in un modo selvaggio. Senza pietà”. “C’erano poliziotti dappertutto – dice un altro testimone sotto anonimato, M. – tutti che picchiavano con i manganelli. Davanti a me, c’era uno che sanguinava e un poliziotto che l’ha manganellato sulla testa. Gli hanno messo dieci punti. Un altro aveva la mano rotta. E c’era uno che non riusciva a camminare sul piede”. Gli scontri sarebbero iniziati davanti alla mensa, dove quattro o cinque agenti avrebbero aggredito – secondo M., che era presente sul luogo – alcuni tunisini che li avevano attaccati verbalmente. Da lì la protesta si sarebbe estesa alle centinaia di persone presenti, che quindi sarebbero state caricate dalla polizia dopo il lancio di gas lacrimogeni, almeno quattro. Le violenze sarebbero continuate anche nelle ore successive all’incendio, durante le fasi dell’identificazione e dell’arresto di una ventina di persone accusate di aver appiccato il fuoco nelle stanze.
Come all’inferno. Y. parla dei pestaggi come di qualcosa di evidente: “Tutti sanno che quel giorno la polizia picchiò i tunisini, anche le organizzazioni che lavorano qui. La polizia era così arrabbiata. Alcuni li prendevano in due sotto braccio, e li portavano in bagno, uno alla volta. Poi chiudevano porte e finestre e li picchiavano”. Mo. invece non si capacita di quanto accaduto: “Abbiamo incontrato dei tunisini gravemente feriti, sembravano ferite di guerra”. E allora si chiede: “Dico grazie alla Marina italiana che ci ha salvato in mare. Ma perchè, penso, ci hanno salvato se dovevano metterci nell’inferno?”
Il sovraffollamento. “Se aveste visto il centro, l’avreste messo voi il fuoco. Non è un posto per delle persone, è un posto per cani”. Il centro è ancora sovraffollato: ospita più di 700 persone in una struttura pensata per 381 posti e in parte distrutta dall’incendio. “Nella mia camera – dice F. – siamo 21 persone in 12 letti. La gente dorme sotto i letti, su dei materassini. Oppure in due sullo stesso letto. E alcuni dormono ancora nei corridoi”. Niente rispetto a fine gennaio, quando il centro era arrivato a ospitare più di 1.900 persone. “All’epoca – dice Mo. – le condizioni erano terribili. Docce e toilette erano fuori uso. In una camerata eravamo oltre 100 persone. Dormivamo in due su ogni materasso e in due sotto il letto, per terra, i piedi davanti alla testa dell’altro”. Per un periodo c’erano addirittura dei turni per dormire. Y. per esempio, dopo le prime quattro notti all’addiaccio, a metà gennaio, ha diviso per dieci giorni il letto con un amico marocchino. “Lui dormiva la notte e io la mattina”.
Gli psicofarmaci. La somministrazione di farmaci antidepressivi e calmanti nel Cie di Lampedusa sarebbe una pratica diffusa, secondo i detenuti intervistati. “La gente è troppo nervosa, prendono dei calmanti. Sono in molti. Li vedi perché hanno la bocca storta. Le medicine sono forti”, dice M. Altri invece lamentano la scarsità di medicinali. “Per qualsiasi malattia, ti danno sempre la stessa pasticca – dice Mo”. Y. invece è convinto che a volte vengano messi dei calmanti nel cibo della mensa. “Era un paio di mesi fa. Un paio d’ore dopo pranzo eravamo tutti così stanchi che volevamo dormire.. abbiamo pensato che ci fosse qualcosa nel cibo”.
Le convalide. Il decreto che ha trasformato il centro di prima accoglienza di Contrada Imbriacola in un Cie è entrato in vigore il 26 gennaio. A partire da quello stesso giorno, la Questura di Agrigento ha iniziato a rilasciare i provvedimenti di respingimento ai 1.134 detenuti presenti. Nel giro di due settimane, Giudici di pace del Tribunale di Agrigento e avvocati d’ufficio hanno provveduto alla convalida di quei provvedimenti, e quindi al trattenimento per 60 giorni degli stranieri. Sessanta giorni che però non hanno tenuto conto del periodo di detenzione già scontato. L’udienza di convalida del trattenimento di Y. e Mo. si è tenuta il 30 gennaio 2009. I due erano detenuti nel Cie da tre settimane, dal loro arrivo il 9 gennaio. Il decorrere dei 60 giorni di trattenimento però è iniziato a partire dal 31 gennaio. E i 21 giorni precedenti? Una banale detenzione arbitraria alla frontiera d’Italia, alla frontiera del diritto.

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