ALTRAINFORMAZIONE

Senza commenti. Fate girare, per favore.

29.09.2009

Questa è la città dove la vita dei bambini vale meno di zero. La ‘ndrangheta li uccide, così, per caso, perché si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Quell’impasto maleodorante di speculazione, malapolitica e indifferenza che governa tante cose della Calabria, li avvelena. Rino Gaetano non canta più. Qui il "cielo non è sempre più blu". Perché l’aria, la terra, le strade, le scuole sono state avvelenate dai rifiuti della "PertusolaSud". Montagne nere di ferraglia mista a cadmio, zinco, arsenico, che la voracità dei dirigenti della fabbrica ha trasformato in materiale da vendere al miglior offerente. La burocrazia e i ministri, anche quelli che negli anni si sono proclamati difensori della salute e dell’ambiente, sono stati distratti, i costruttori hanno ritenuto vantaggioso il prezzo.
E così che a via Marinella un intero piazzale è stato tirato su con il "Cubilot". Non è il nome di un cartone animato di nuova generazione, ma quello di una miscela di zinco e altri veleni. Chi ne viene a contatto rischia malattie gravi. Ma ci vorranno anni, avverte il professor Sebastiano Andò, per valutare i danni sull’organismo. Su quel piazzale c’è un istituto tecnico. È chiuso. Come chiusa è la scuola elementare San Francesco. A Crotone, chi doveva si è accorto del pericolo solo dopo anni. C’era anche un’inchiesta aperta, ma prendeva polvere negli scaffali della procura dal 1998. Solo dieci anni dopo un giovane pm, Pierpaolo Bruni, ha tolto la polvere, ha riaperto i faldoni e ha scoperchiato il bubbone di "Black Mountain". La città trema, le famiglie dei bambini e dei ragazzi vivono nel terrore. Ci sono morti e malattie sospette.

Abbiamo parlato coni genitori dei bambini colpiti. Ne raccontiamo le storie evitando, per motivi di privacy e di semplice umanità, di indicare i nomi. Il bambino E frequentava la materna alla Scuola San Francesco. A tre anni comincia a lamentare forti dolori alla pancia. Una visita dal pediatra, il ricovero all’ospedale cittadino, i medici che non capiscono. Lo portano a Trieste. Qui la diagnosi. Dura, difficile da leggere e da capire: tumore botroide alle vie biliari. "Ma dove abitate, vicino a una discarica?" Allado manda degli specialisti, i genitori di F. rimangono allibiti. Il bambino porta sul corpo i segni delle quattro operazioni subite. Il pallore del viso racconta delle lunghe sedute di chemioterapia. Dovrà sottoporsi a visite ogni quattro mesi e solo nel 2012 potrà essere dichiarato definitivamente fuori pericolo. I genitori, entrambi disoccupati, continueranno la loro via crucis verso Trieste. Il bambino G. è stato meno fortunato. È morto. La vita divorata da una "leucemia mieloide acuta". Abitava con la sua famiglia a Bernabò, una lunga strada costruita col Cubilot. Era uno dei tanti cantieri che dirigenti della Pertusola, costruttori con pochi scrupoli e tanto pelo sullo stomaco, hanno trasformato in discariche abusive. Quante tonnellate di veleno sono finite interrate sotto strade, scuole, palazzi della città di Crotone?
Non è ancora possibile fare un calcolo. Il pm Bruni ha valutato che nei depositi dell’azienda erano stoccati non meno di 200.000 metri cubi di materiale, qualcosa come 400.000 tonnellate. Questo fino al 1996. E le montagne di veleni dei decenni precedenti, che fine hanno fatto, quali metastasi hanno già provocato nel corpo della città? Il dottor Francesco Rocca è il responsabile del servizio prevenzione, igiene e sicurezza della Azienda sanitaria. "La montagna di detriti prodotta dalla Pertusola era ammassata nei piazzati della fabbrica. È stata per decenni, fin dagli anni Venti, esposta al vento, alla pioggia. Quali danni sono stati provocati alla catena alimentare, alla salute dell’intera cittadinanza? Sono interrogativi ai quali potremo rispondere solo dopo una lunga indagine retrospettiva iniziando dagli operai che hanno lavorato nello stabilimento e dai loro familiari. Noi abbiamo bisogno di un centro epidemiologico che studi per anni l’incidenza delle varie patologie".

Rossella Vazzano è una mamma e rappresenta il comitato dei genitori dei bambini che hanno frequentato la scuola San Francesco. "E’ uno schifo, siamo stati informati dai giornali locali. Ora, però, vogliamo sapere tutto. Devono rendere note le analisi, che si faccia uno screening su tutti coloro che a vario titolo, insegnanti, operatori, genitori, hanno frequentato quella maledetta scuola. Vogliamo la verità".

Crotone, dove la vita dei bambini vale meno di zero. Sui muri sono ancora freschi i manifesti listati di nero che annunciano la morte di Domenico, 11 anni, colpito a giugno dai proiettili di un killer di mafia. Stava giocando a calcetto col papà. Gaia, 5 anni, sta lottando tra la vita e la morte in ospedale. Le spararono in testa i killer di suo padre. Luca Megna, di professione mafioso.

Enrico Fierro
(Ha collaborato Rossana Caccavo)

Questo è il video dell’intervento di Saviano alla manifestazione per la libertà di stampa. In parte i contenuti sono quelli espressi nell’articolo uscito su Repubblica il giorno prima, ma consiglio in ogni caso la visione di questo filmato.

03.10.2009

Questo intervento di Roberto Saviano è stato pubblicato su Repubblica il giorno prima della manifestazione a Roma per la libertà di stampa; è stato pubblicato anche da El Paìs, The Times, Le Figaro, Die Zeit, dallo svedese Expressen e dal portoghese Espresso.

02.10.2009
Molti si chiederanno come sia possibile che in Italia si manifesti per la libertà di stampa. Da noi non è compromessa come in Cina, a Cuba, in Birmania o in Iran. Ma oggi manifestare o alzare la propria voce in nome della libertà di stampa, vuol dire altro. Libertà di poter fare il proprio lavoro senza essere attaccati sul piano personale, senza un clima di minaccia. E persino senza che ogni opinione venga ridotta a semplice presa di parte, come fossimo in una guerra dove è impossibile ragionare oltre una logica di schieramento. Oggi, chiunque decida di prendere una posizione sa che potrà avere contro non un’ opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime. E persino coloro che hanno firmato un appello per la libertà di informazione devono mettere in conto che già soltanto questo gesto potrebbe avere ripercussioni. Qualsiasi voce critica sa di potersi aspettare ritorsioni. Libertà di stampa significa libertà di non avere la vita distrutta, di non dover dare le dimissioni, di non veder da un giorno all’ altro troncato un percorso professionale per un atto di parola, come è accaduto a Dino Boffo. Vorrei parlare apertamente con chi, riconoscendosi nel centrodestra, dirà: «Ma che volete? Che cosa vi mettete a sbraitare adesso, quando siete stati voi per primi ad aver trascinato lo scontro politico sul terreno delle faccende private erigendovi a giudici morali? Di cosa vi lamentate se ora vi trovate ripagati con la stessa moneta?». Infatti la questione non è morale. La responsabilità chiesta alle istituzioni non è la stessa che deve avere chi scrive, pone domande, fa il suo mestiere. Non si fanno domande in nome della propria superiorità morale. Si fanno domande in nome del proprio lavoro e della possibilità di interrogare la democrazia. Un giornalista rappresenta se stesso, un ministro rappresenta la Repubblica. La democrazia funziona nel momento in cui i ruoli di entrambi sono rispettati. Per un giornalista, fare delle domande o formulare delle opinioni non è altro che la sua funzione e il suo diritto. Ma un cittadino che svolge il suo lavoro non può essere esposto al ricatto di vedere trascinata nel fango la propria vita privata. E una persona che pone delle domande, non può essere tacitata e denunciata per averle poste. Non è sulla scelta di come vive che un politico deve rispondere al proprio paese. Però quando si hanno dei ruoli istituzionali, si diventa ricattabili, ed è su questo piano, sul piano delle garanzie per le azioni da compiere nel solo interesse dello Stato, che chi riveste una carica pubblica è chiamato a rendere conto della propria vita. In questi anni ho avuto molta solidarietà da persone di centrodestra. Oggi mi chiedo: ma davvero gli elettori di centrodestra possono volere tutto questo? Possono ritenere giusto non solo il rifiuto di rispondere a delle domande, ma l’ incriminazione delle domande stesse? Possono sentirsi a proprio agio quando gli attacchi contro i loro avversari prendono le mosse da chi viene mandato a rovistare nella loro sfera privata? Possono non vedere come la lotta fra l’ informazione e chi cerca di imbavagliarla, sia impari e scorretta anche sul piano dei rapporti di potere formale? Chi ha votato per l’ attuale schieramento di governo considerandolo più vicino ai propri interessi o alle proprie convinzioni, può guardare con indifferenza o approvazione questa valanga che si abbatte sugli stessi meccanismi che rendono una democrazia funzionante? Non sente che si sta perdendo qualcosa? Il paese sta diventando cattivo. Il nemico è chi ti è a fianco, chi riesce a realizzarsi: qualunque forma di piccola carriera, minimo successo, persino un lavoro stabile, crea invidia. E questo perché quelli che erano diritti sono stati ridotti quasi sempre a privilegi. È di questo, di una realtà così priva di prospettive da generare un clima incarognito di conflittualità che dovremmo chiedere conto: non solo a chi governa ma a tutta la nostra classe politica. Però se qualsiasi voce che disturba la versione ufficiale per cui va tutto bene, non può alzarsi che a proprio rischio e pericolo, che garanzie abbiamo di poter mai affrontare i problemi veri dell’ Italia? Il ricatto cui è sottoposto un politico è sempre pericoloso perché il paese avrebbe bisogno di altro, di attenzione su altre questioni urgenti, di altri interventi. Il peggio della crisi per quel che riguarda i posti di lavoro deve ancora arrivare. In più ci sono aspetti che rendono l’ Italia da tempo anomala e più fragile di altre nazioni occidentali democratiche, aspetti che con un simile aumento della povertàe della disoccupazione divengono ancora più rischiosi. Nel 2003 John Kerry, allora candidato alla Casa Bianca, presentò al Congresso americano un documento dal titolo The New War, dove indicava le tre mafie italiane come tre dei cinque elementi che condizionano il libero mercato quantificando in 110 miliardi di dollari all’ anno la montagna di danaro che le mafie riciclano in Europa. L’ Italia è il secondo paese al mondo per uomini sotto protezione dopo la Colombia. È il paese europeo che nei soli ultimi tre anni ha avuto circa duecento giornalisti intimiditie minacciati per i loro articoli. Molti di loro sono finiti sotto scorta. Ed è proprio in nome della libertà di informazione che il nostro Stato li protegge. Condivido il destino di queste persone in gran parte ignote o ignorate dall’ opinione pubblica, vivendo la condizione di chi si trova fisicamente minacciato per ciò che ha scritto. E condivido con loro l’ esperienza di chi sa quanto siano pericolosi i meccanismi della diffamazione e del ricatto. Il capo del cartello di Calì, il narcos Rodriguez Orejuela, diceva «sei alleato di una persona solo quando la ricatti». Un potere ricattabile e ricattatore, un potere che si serve dell’ intimidazione, non può rappresentare una democrazia fondata sullo stato di diritto. Conosco una tradizione di conservatori che non avrebbero mai accettato una simile deriva dalle regole. In questi anni per me difficili molti elettori di centrodestra, molti elettori conservatori, mi hanno scritto e dato solidarietà. Ho visto nella mia terra l’ alleanza di militanti di destra e di sinistra, uniti dal coraggio di voler combattere a viso aperto il potere dei clan. Sotto la bandiera della legalità e del diritto sentita profondamente come un valore condiviso e inalienabile. È con in mente i volti di queste persone e di tante altre che mi hanno testimoniato di riconoscersi in uno Stato fondato su alcuni principi fondamentali, che vi chiedo di nuovo: davvero, voi elettori di centrodestra, volete tutto questo? Questa manifestazione non dovrebbe veramente avere colore politico, e anzi invito ad aderirvi tutti i giornalisti che non si considerano di sinistra ma credono che la libertà di stampa oggi significa sapersi tutelati dal rischio di aggressione personale, condizione che dovrebbe essere garantita a tutti. Vorrei che ricordassimo sino in fondo qual è il valore della libertà di stampa. Vorrei che tutti coloro che scendono in piazza, lo facessero anche in nome di chi in Italia e nel mondo ha pagato con la vita stessa per ogni cosa che ha scritto e fatto a servizio di un’ informazione libera. In nome di Christian Poveda, ucciso di recente in El Salvador per aver diretto un reportage sulle maras, le ferocissime gang centroamericane che fanno da cerniera del grande narcotraffico fra il Sud e il Nord del continente. In nome di Anna Politkovskaja e di Natalia Estemirova, ammazzate in Russia per le loro battaglie di verità sulla Cecenia, e di tutti i giornalisti che rischiano la vita in mondi meno liberi. Loro guardano alla libertà di stampa dell’ Occidente come un faro, un esempio, un sogno da conquistare. Facciamo in modo che in Italia quel sogno non sia sporcato.

Roberto Saviano

Alberto Cairo lavora per il Programma Ortopedico del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Afghanistan

23.04.2009
Quando arrivai a Kabul nel 1990, Latif fu l’ insegnante-guida che mi fece conoscere il paese. Grazie a lui imparai a evitare errori grossolani e a guardare un poco oltre le apparenze. Una sera, drammatico, annunciò che avrebbe parlato della più grande tragedia dell’ Afghanistan. Pensai a guerra, povertà; alla geografia del paese, che lo vuole attorniato da vicini-nemici. "Le etnie sono la nostra rovina," disse invece solenne. "Etnie forti voglion dire stato debole", spiegò alludendo allo sfasciarsi del potere centrale allora in atto e al sorgere di fazioni mujahiddin e signori della guerra. "Un circolo vizioso: se leggi e governo non ti proteggono, ti rifugi in clan e tribù, rendendo lo stato ancora più diviso e impotente". Consigliava di sempre osservare l’ equilibrio etnico assumendo personale nuovo in ospedale. Ora l’ Afghanistan è in mille frazioni, con gruppi, clan, e sottoclan. Ogni individuo ha obblighi verso il proprio gruppo, fatto di parenti più o meno stretti, e dal gruppo riceve in cambio sostegno e difesa. Quando Latif disse di conoscere per nome quattrocento parenti, provai a contare i miei, senza arrivare a trenta. La tradizione, proseguì, voleva pashtun per comandare, tajiki per amministrare, hazara per servire. Che pashtun fossero tutti i re (tranne uno nel 1929), tajiki i più attivi impiegati negli uffici governativi e silenziosi hazara dai tratti orientali i migliori domestici, lo provava. Senza generalizzare, le sue parole sono ancora tristemente valide. Hazarà e tajiki poveri chiedono e accettano qualsiasi lavoro, anche pulire i bagni; i pashtun, persino quelli senz’ arte nè parte, no. Se uno chiede loro "che vorreste fare?", rispondono sicuri: "i controllori". Alle ultime elezioni, molti afgani hanno votato in base all’ etnia. Decidere il capo dello stato scegliendolo in base a ciò che mina lo stato stesso è una contraddizione.

Alberto Cairo

Segnalo una parte dell’intervento domenicale di Eugenio Scalfari su Repubblica, secondo me particolarmente significativo.

23.08.2009
Perché i pescherecci che avvistano barche di migranti in difficoltà non intervengono? Risposta: se sono in difficoltà superabili, intervengono, forniscono viveri acqua e coperte, indicano la rotta. Se sono in difficoltà gravi, li segnalano alle autorità italiane.
Segnalano sempre? Risposta: non sempre.
Perché non sempre? Risposta: se imbarchiamo i migranti sui nostri pescherecci rischiamo di perdere giorni e settimane di lavoro. Noi siamo in mare per pescare. Con gli immigrati a bordo il lavoro è impossibile.

Non siete risarciti dallo Stato? Risposta: no, per il mancato nostro lavoro non siamo risarciti.
Ci sono altre ragioni che vi scoraggiano? Risposta: chi prende a bordo clandestini e li porta a terra rischia di essere processato per favoreggiamento al reato di clandestinità. Temono di esserlo, perciò molti chiudono gli occhi e evitano di immischiarsi.

Se li portate a Malta che succede? Risposta: peggio ancora, ci sequestrano la barca per mesi e ci tolgono l’autorizzazione a pescare nelle loro acque.
Questi sono i risultati di una legge sciagurata, salutata non solo dalla Lega ma dall’intero centrodestra come un successo, una guerra vittoriosa contro le invasioni barbariche.

Questa legge dovrebbe essere abrogata perché indegna di un paese civile. Nel frattempo gli immigrati entrano a frotte dai valichi dell’Est. Non arrivano per mare ma in pullman, in automobile, in aereo, in ferrovia e anche a piedi. Alimentano il lavoro regolare e quello nero in tutta la Padania e non soltanto.
I famigerati rom e i famigerati romeni vengono via terra e non via mare.
La vostra legge non solo è indecente ma è contemporaneamente un colabro

18.08.2009

Abbiamo affondato 180 blocchi di granito nel mare di Kattegat in Svezia. Questi massi formeranno una barriera di protezione contro la pesca a strascico nelle zone di Lilla Middelgrund e Fladen, due aree marine ‘protette’ solo sulla carta.

Prima di dare inizio all’operazione abbiamo commissionato uno studio di impatto ambientale per assicurarci che le attività non avessero alcuna ripercussione sull’ecosistema. Per posizionare i 180 blocchi, gli attivisti hanno lavorato sodo per una settimana. I massi – fino a tre tonnellate di peso – ostacoleranno le reti a strascico, responsabili della distruzione dei fondali marini, ecosistemi ricchissimi di biodiversità.

Nel 2003 Lilla Middelgrund e Fladen sono state riconosciute come aree marine da proteggere sia dalla Svezia che dalla Comunità Europea (secondo la Direttiva Habitat). Purtroppo, in assenza di effettive misure legali, metodi di pesca distruttiva come lo strascico vengono comunemente praticati in queste zone di grande valore ecologico.

Data l’assenza di effettive misure legali, siamo costretti a gettare in mare blocchi di granito per proteggere habitat particolarmente sensibili. C’è bisogno di una riforma urgente della politica comunitaria sulla pesca. Noi continueremo a fare campagna con ogni strumento a nostra disposizione per chiedere l’istituzione di una rete di riserve marine che copra il 40 per cento dei mari del Pianeta.

Nel 2008 Greenpeace aveva già posizionato 320 massi a Sylt Outer, al largo della costa tedesca, un’altra area "protetta" distrutta da attività di pesca a strascico. I massi sono serviti a bloccare la pesca su tali fondali e sono già stati colonizzati da una gran quantità di vita marina.

Uno studio inglese avrebbe dimostrato che prodotti biologici o coltivati con agricoltura tradizionale hanno le stesse proprietà nutritive, come riportato in un articolo pubblicato ieri su “la Repubblica”.
Ne cito una parte: “Mangiare cibi biologici o prodotti convenzionali non fa alcuna differenza. I loro contenuti nutritivi, dati alla mano, sono gli stessi. Parola della Food standards agency (Fsa), l’ organismo ministeriale incaricato di tutelare la sicurezza alimentare inglese, che con una ricerca-choc su 162 studi dell’ ultimo mezzo secolo ha rilanciato su scala planetaria la guerra (scientifica) del bio. «Il nostro lavoro non riguarda le conseguenze sull’ organismo dell’ uso di erbicidi o pesticidi» mette le mani avanti Alan Dangour, uno dei curatori del rapporto. Ma i risultati sono lo stesso sorprendenti: ortaggi, cereali e frutta coltivati con metodi naturali (solo letame e concimi organici, niente diserbanti o pesticidi di sintesi) hanno gli stessi "ingredienti" dei cugini tirati su a forza di chimica.”
Questo è diventato il cavallo di battaglia di tutti i bio-scettici…
Ho trovato eccellente il commento di Carlo Petrini (fondatore di “Slow food”). Lo riporto qui sotto.

NIENTE CHIMICA E PIU’ NATURA, ECCO PERCHE’ LA SCELTA è GIUSTA

Mentre in ogni angolo di mondo ci si trova a ragionare in termini di sicurezza alimentare su Ogm, fitofarmaci, sementi, cibi funzionali, salute delle acque e situazione dei mari; mentre da ogni angolo del pianeta si leva, verso la ricerca pubblica, la medesima richiesta di ricerca indipendente e di risultati certi su cui basare le scelte politiche future, invece di costruirle solo sul mercato; mentre la parte più ragionevole dei consumatori e dei produttori di cibo si converte al biologico, per convinzione o per disperazione, di cosa si occupa l’ ente governativo britannico preposto alla tutela della salute pubblica per quel che concerne il cibo? Di provare e pubblicizzare, non voglio sapere usando quanto tempo e denaro, che il cibo biologico non sarebbe, dal punto di vista nutrizionale, superiore a quello convenzionale.

UDITE udite: un pomodoro bio non avrebbe più vitamine di un pomodoro convenzionale. E allora? Anche ammesso fosse vero – e ci sono fior di ricerche a provare il contrario – pensano davvero che i consumatori scelgono il bio solo perché credono abbia più vitamine? Non li sfiora il pensiero che chi sceglie di consumare o produrre bio ha una visione un poco più complessa e ampia del cibo? Non si vive di sole vitamine. Si vive di rispetto dei ritmi di maturazione, di tutela della fertilità dei terreni, di paesaggi custoditi, di bellezza pur nello sviluppo, di tessuto sociale, di bontà organolettica, di relazioni umane come quelle che si instaurano in un mercato di prossimità. Si vive di assenza di residui chimici. Si vive di cibo raccolto quando è maturo e prodotto nei territori vocati, si vive di cibo spostato il meno possibile, si vive di cibo vero. E si vive di cibo trasparente.

Una delle ragioni principali per cui i consumatori scelgono il bio è che sanno cosa è. Una delle ragioni principali per cui certo cibo industriale riesce ad essere venduto è che una lunga serie di informazioni su di esso viene taciuta al consumatore, poiché non rientra negli obblighi di legge. Anche la battaglia sugli Ogm è una battaglia di etichette. Se si aprissero tutti i mercati agli Ogm ma con l’ obbligo di dichiararli in etichetta la maggior parte delle aziende produttrici fallirebbe. E infatti accanto alle azioni di lobbying per ottenere autorizzazioni alla coltivazione e commercializzazione, c’ è una azione di lobbying straordinariamente più forte e cocciuta per evitare, ad ogni livello, l’ obbligatorietà delle dichiarazioni in etichetta.

Di questo occorrerebbe occuparsi, quando si parla di sicurezza alimentare e di salute pubblica: non del fatto che i pomodori bio non sono più salutari di quelli convenzionali. Ma del fatto che un certo tipo di agricoltura tratta produttori e consumatori come pedine di un gioco le cui vincite non vanno in tasca né agli uni né agli altri. Se la Food Standards Agency si ritrova con tempo e cervelli in abbondanza, provi a rispondere alle domande che davvero interessano i consumatori, a proposito della loro salute in relazione al cibo. Provi a chiarire le relazioni tra l’uso della chimica in agricoltura e l’impennarsi di tumori degli ultimi cinquant’anni. Provi a dirci quali e quante sostanze chimiche vengono rilevate in mare e dunque nei pesci a ciclo vitale lungo. Indagare su quello che già siamo sicuri sia innocuo, è troppo facile. E, in un momento in cui i consumi di biologico stanno crescendo, viene da chiedersi per quale motivo, e per fare un favore a chi, si senta il bisogno di raffreddare gli entusiasmi.

Appello di Legambiente Sicilia 

Saranno le Ferrovie dello Stato a finanziare il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina, e questo sottrarrà risorse ingentissime all’opera di ammodernamento e potenziamento del sistema ferroviario, quanto mai urgente soprattutto nel Mezzogiorno.
In base alla Convenzione stipulata con la Società Stretto di Messina, le FS pagheranno un canone annuo per far passare i treni sul Ponte: la tariffa sarà di 100 milioni di Euro il primo anno e poi andrà ulteriormente crescendo.
Complessivamente, in trent’anni le FS dovrebbero pagare circa 4 miliardi di Euro, 8mila miliardi delle vecchie Lire.

Ma non basta: nella Convenzione è previsto che le FS finanzino tutte le opere di collegamento, e che le risorse che attualmente le Ferrovie ricevono dal Ministero delle Infrastrutture per il servizio di traghettamento dei treni (38 milioni di Euro l’anno) vengano trasferite alla Società Stretto di Messina.
Saranno interamente risorse "pubbliche" a consentire la realizzazione dell’opera, mentre nessun privato rischierà un solo Euro.
Lo Stato oltre a investire direttamente 2,5 miliardi a fondo perduto attraverso Società che controlla direttamente
(Fintecna, Anas, FS) e a "girare" un canone annuo di oltre 150 milioni di Euro (attraverso il Ministero delle Infrastrutture e le FS), si impegna a coprire l’eventuale differenza tra quanto previsto dal piano finanziario e il ritorno di cassa dai flussi.
Questo a riprova dell’infondatezza delle proiezioni sulla domanda di traffico sul Ponte e della conseguente necessità di garantire in via preliminare il rimborso del prestito ottenuto sul mercato.

Una sola grande opera, dal pesante impatto ambientale e dalla scarsissima utilità per le concrete esigenze della mobilità, concentrerà su di sé molti miliardi di denaro pubblico, che verranno così sottratti ai veri deficit infrastrutturali del Sud.
In Sicilia metà della rete ferroviaria non è ancora elettrificata;in tutto il Mezzogiorno la rete sia stradale che ferroviaria versa in un degrado penoso, con velocità commerciali che non hanno paragoni nel resto d’Europa.
Questi sono i problemi prioritari del Sud, la realizzazione del Ponte sullo Stretto impedirebbe per altri decenni di affrontarli…

Per questi motivi i suddetti firmatari chiedono:
– al Governo
– al Parlamento Nazionale
– ai Consigli Regionali della Sicilia e della Calabria

1) di cancellare gli oneri a carico delle Ferrovie dello Stato per il finanziamento del progetto del Ponte sullo Stretto di Messina previsti dalla Convenzione;
2) di riaprire un confronto sugli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, che parta dalla rinuncia al Ponte e metta al centro le priorità che riguardano le ferrovie, i porti, la sicurezza stradale, per avviare uno sviluppo virtuoso che valorizzi le risorse territoriali e crei occupazione duratura.

Segue modulo da compilare online per firmare e appoggiare la petizione.

31.07.2009

Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo dal titolo "Le ‘sposavo’ prima dell’esecuzione" di Sabina Amidi apparso sul "Jerusalem Post" del 19 luglio 2009

Nota dell’autrice: Durante questa intervista, un membro in servizio del corpo paramilitare iraniano Basiji ha narrato del suo ruolo nel sopprimere le manifestazioni di protesta delle scorse settimane. L’uomo ha anche raccontato nel dettaglio gli aspetti dei suoi compiti precedenti nella milizia, compresa la sua partecipazione agli stupri di minorenni iraniane prima dell’esecuzione della loro condanna a morte. L’intervista si e’ data in condizioni di anonimato. Per le stesse ragioni di sicurezza, il nome della terza persona che l’ha favorita non può essere rivelato.

Fondata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1979 come "milizia del popolo", il gruppo di volontari chiamato Basiji e’ subordinato alle Guardie della rivoluzione e fortemente leale al successore di Khomeini, Khamenei. L’intervistato, che e’ sposato con figli, ha parlato subito dopo il suo rilascio dalla prigione. Era detenuto per aver commesso il "crimine" di aver lasciato andare due ragazzini, un maschio di tredici anni ed una femmina di 15, che erano stati arrestati durante una delle dimostrazioni di protesta seguite alle elezioni presidenziali dello scorso giugno. "Ci sono stati molti altri, poliziotti o membri di forze di sicurezza, arrestati perche’ avevano mostrato clemenza verso i manifestanti in strada, o perche’ li avevano lasciati andare senza il consenso dei loro superiori", dice il volontario. Il suo biasimo per la tremenda violenza impiegata dagli apparati di sicurezza iraniani contro i dimostranti va a quelle che chiama "forze di sicurezza importate": "Hanno reclutato nei piccoli villaggi anche ragazzi di quattordici o quindici anni, ed hanno dato loro talmente tanto potere che questi ragazzini, mi dispiace dirlo, ne hanno davvero abusato. Fanno quel che gli pare. Forzano le persone a svuotare i portafogli, prendono quel che vogliono dai negozi senza pagare, molestano le ragazze, che sono cosi’ terrorizzate da non riuscire neanche a muoversi". Questi giovani ed altri vigilantes volontari, ha aggiunto, hanno commesso la maggior parte dei loro crimini in nome del regime. Quando gli ho chiesto del suo ruolo nella brutale repressione dei manifestanti, e se rimpiangeva qualcosa che aveva fatto, ha risposto evasivamente: "Non ho aggredito nessuno di loro, ma anche se l’avessi fatto e’ mio dovere eseguire gli ordini. Non ho rimpianti, eccetto che per il periodo in cui ho lavorato come guardia carceraria, durante la mia giovinezza". Alla domanda sul perche’ si fosse unito ai volontari del gruppo Basiji, ha replicato: "Quando avevo 16 anni, mia madre mi porto’ ad una stazione Basiji e li supplico’ di prendermi con loro, perche’ nel mio futuro non c’era niente. Mio padre era stato un martire della guerra in Iraq, e lei non voleva che io mi dessi alle droghe o che diventassi un criminale di strada. Non ho avuto scelta".

L’uomo si guadagnò presto la stima dei propri superiori, tanto che a 18 anni gli fu conferito l’"onore" di sposare temporaneamente le ragazze detenute prima della loro esecuzione. Nella Repubblica islamica, ha spiegato, e’ proibito eseguire una condanna a morte su una vergine. Percio’, la notte prima dell’esecuzione si tiene per lei una cerimonia "matrimoniale", dopo la quale e’ costretta ad avere rapporti sessuali con la guardia carceraria che e’ diventata il suo temporaneo "marito". "Per questo provo rammarico", ha detto l’uomo, "anche se i matrimoni erano legali". Perche’ il rammarico, se i matrimoni erano "legali"? "Perche’", ha continuato, "potevo vedere che le ragazze erano piu’ spaventate dalla loro notte di nozze che dall’esecuzione che le aspettava al mattino. E resistevano sempre, per cui si doveva metter loro un po’ di sonnifero nel cibo. Al mattino avevano tutte un’espressione vuota. Sembrava quasi che fossero pronte a morire o che lo desiderassero. Ricordo come piangevano ed urlavano quando (lo sstupro – nda) era terminato. Non dimentichero’ mai come una di loro, appena finito, prese ad incidersi il volto e il collo con le unghie: si pratico’ profonde ferite dappertutto".

Ritornando agli eventi delle ultime settimane, ed alla sua decisione di lasciare liberi i due ragazzini, il volontario ha detto che "onestamente" non sa perche’ l’ha fatto, anche se la decisione ha condotto al suo arresto: "Forse e’ stato perche’ erano cosi’ giovani. Sembravano bambini, ed io sapevo cosa sarebbe accaduto loro se non fossero stati rilasciati". Ha aggiunto che un maschio e’ ritenuto responsabile delle sue azioni dopo i 13 anni, ma che una femmina e’ responsabile gia’ a nove, per cui e’ stato il rilascio della fanciulla a metterlo veramente nei guai. "Pero’ non sono stato maltrattato. Non mi hanno neppure interrogato sul serio. Mi hanno messo in una piccola stanza e mi hanno lasciato li’. Era duro essere isolato, cosi’ ho passato la maggior parte del tempo pregando e pensando a mia moglie e ai miei figli".

Sabina Amidi

PROMEMORIA

Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola,
a mezzogiorno.

Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.

Ci sono cose da non fare mai, 
né di giorno né di notte,
né per mare né per terra: 
per esempio, la guerra.

Gianni Rodari

18.06.2009

Miracolo di Cantoni: Pd e Pdl dicono sì a un miliardo di armi

L’unica cosa che li unisce tutti è la guerra. Non solo perché se la fanno tutti i giorni e quasi sempre senza indossare l’alta uniforme e per ragioni assai banali. Ma perché in mezzo a tante polemiche e colpi bassi c’è un posto quasi nascosto nel parlamento in cui Pd e Pdl (e perfino Udc, Lega Nord e Italia dei valori), marciano insieme e colpiscono uniti.

È la commissione Difesa del senato, guidata da una vecchia volpe della politica come Giampiero Cantoni (Pdl). A lui è riuscito, proprio di questi tempi, un mezzo miracolo: tenere compatte le truppe di maggioranza e opposizione. E in due sole sedute (l’ultima martedì) ha fatto licenziare programmi di acquisto d’arma per circa un miliardo di euro… C’è un po’ di tutto nelle decisioni votate all’unanimità dalla commissione di Cantoni: sistemi di protezione radaristica, acquisizione di missili di nuova generazione, armi anti-carro e perfino alcune ambulanze blindate per il soccorso ai feriti nelle zone di guerra (per 45 milioni, utili certo in Afghanistan).

La raffica di approvazioni nell’aultima settimana ha sbloccato programni pluriennali per un valore di un miliardo e 50 milioni, sia pure spalmati su più anni. Ma non è un precedente alla commissione Difesa, perchè in tutta la legislatura i partiti hanno marciato insieme in quasi tutte le occasioni. Unica eccezione vistosa l’8 aprile scorso, quando una parte del Pd non ha partecipato alla votazione sul programma di acquisizione del caccia americano Joint Strike Fighter, rilevando come di fronte a un investimento di oltre 1 miliardo di dollari ci sarebbe stato un ritorno certo per Finmeccanica non superiore ai 150 milioni. Nella decisione c’era poi l’antica divisione fra i sostenitori del caccia JSF e quelli di Eurofighter, l’analogo velivolo dell’industria europea. Ma si è trattato di un’eccezione alla regola. Nella concordia della commissione certo ha un peso il fatto che i rappresentanti dei vari partiti siano ex militari, come i generali Mauro Del Vecchio (Pd) e Luigi Ramponi (Pdl). Ma anche questo può diventare un esempio: quando i partiti inviano in commissione esperti reali dei temi che si discutono, è più facile raggiungere intese sul bene comune senza giocare alla guerriglia inutile fra le parti.

Non sarebbe stato male potere marciare in questo modo anche sui provvedimenti economici contro la crisi, con un po’ di capacità e buona volontà nelle fila dell’uno e dell’altro fronte. Ma purtroppo l’unica cosa che unisce tutti è proprio la guerra…

Franco Bechis

Emergency

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