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Niente regali alle mafie:
i beni confiscati sono cosa nostra.

Qui è possibile leggere e firmare l’appello di don Ciotti presidente di Libera e del Gruppo Abele.

14.12.2009

Ecco perché l’emendamento alla Finanziaria che consente la vendita dei beni confiscati ai boss tradisce lo spirito e il dettato della legge sulla destinazione sociale dei patrimoni sottratti alle mafie. Elena Ciccarello lo spiega sull’ultimo numero di Narcomafie a giorni nelle librerie e nelle botteghe di Libera.

Parliamoci chiaro. L’emendamento alla finanziaria approvato in Senato lo scorso 13 novembre (relatore Maurizio Saia, Pdl), che introduce la possibilità di vendere i beni confiscati ai mafiosi, non rischia solo di essere un regalo alle cosche o una miope soluzione per fare cassa. È un vero e proprio colpo di spugna al lungo e faticoso percorso inaugurato con l’approvazione della legge di iniziativa popolare 109/96 che ha introdotto la possibilità di destinare i beni a scopi sociali.

Le ragioni sono semplici. Con questa norma possono essere destinati alla vendita tutti gli immobili confiscati ma non destinati entro 90 giorni (centottanta in caso di operazioni particolarmente complesse). Quindi, in buona sostanza, finirebbe all’asta tutto lo stock di beni che giace in disuso, ad oggi più di 3.000 immobili, cui si aggiungerebbero tutti quelli man mano in scadenza. Non è infatti un segreto che nella stragrande maggioranza dei casi, a causa dei mille impedimenti che intercorrono nella fase di destinazione – ipoteche e proprietà indivise sono le più diffuse – il termine dei 90 giorni sia di gran lunga superato. Facile allora prevedere le conseguenze. Gli ex proprietari cercheranno di rientrare in possesso dei loro immobili ricorrendo ad amici e prestanome. Lo fanno già adesso, figurarsi quando saranno messi all’asta. Dalla Sicilia al Piemonte, avvocati, commercialisti e amici degli amici si adoperano, intercedono, perché i beni tornino agli ex proprietari. I segnali sono molti. Da tempo a Polizzi Generosa, in Sicilia, sulle Madonie, è stata segnalata la pressione dei parenti di Michele Greco per riacquisire il feudo VerbumCaudo, 150 ettari di seminativo confiscato al loro congiunto e non ancora destinato a causa di un’ipoteca. Lo stesso avviene a Isola Capo Rizzuto (Kr) dove analoghi movimenti coinvolgono i patrimoni confiscati alla potente cosca degli Arena. Ma di esempi se ne potrebbero fare molti.
Se l’emendamento dovesse passare anche alla Camera finirebbero all’asta patrimoni dall’inestimabile valore economico e simbolico, come il castello del boss Pasquale Galasso sul lago d’Orta (No), con i suoi 60mila mq di parco, l’albergo confiscato a Enrico Nicoletti, banda della Magliana, del valore di 6 milioni di euro ma inagibile e gravato da ipoteca, o il prestigioso Hotel Astoria, confiscato a Giovanni Ienna a Palermo, più di 26 milioni di euro di valore, ma anch’esso occupato e gravato da ipoteca.

Da sempre i mafiosi mal digeriscono la confisca. Suonano ancora nelle orecchie le parole del vecchio boss Francesco Inzerillo, intercettato nel 2007 nel carcere di Torino mentre consigliava al nipote di lasciare l’Italia perché «non si può più lavorare» e con l’articolo 416bis «scatta il sequestro dei beni» e «cosa più brutta della confisca dei beni non c’è». Persino nel fantomatico papello, che conterrebbe l’elenco di richieste di Cosa nostra allo Stato per porre fine alla stagione delle stragi, si chiedeva la revisione della legge Rognoni-La Torre del 1982 che regola la confisca. Pio La Torre, ideatore della legge, capì l’importanza di sottrarre i beni ai clan e pagò con la vita la sua felice intuizione.
Ogni volta che un bene viene confiscato o destinato gli ex proprietari sfogano il loro disappunto vandalizzandolo. «Niente per noi, niente per nessuno» avevano sostenuto gli Schiavone quando il Demanio, nel 2002, entrò in possesso della loro azienda bufalina a Grazzanise (Ce). Distrussero i silos, fecero morire le bufale e bruciarono i depositi di foraggio. Il braccio di ferro tra gli ex proprietari e lo Stato arriva talvolta a inquinare la vita stessa delle amministrazioni. I comuni di Nicotera (Vv) e Canicattì (Ag) negli anni passati sono stati sciolti anche per questi motivi.

Ma poi, chi comprerebbe i patrimoni in vendita? In tempo di crisi le cosche sono le prime a disporre del denaro necessario a ricomprare ciò che era loro. Ed è irrealistica l’ipotesi di una vera concorrenza tra privati per l’acquisto. Chi correrebbe mai il rischio di sfidare la mafia per averne i beni? All’orizzonte si intravedono aste deserte e beni svenduti come nella stagione dei saldi.
Per evitare il ritorno dei patrimoni ai mafiosi l’emendamento presentato al Senato prevede l’intervento delle Prefetture affinché «i beni non siano acquistati, anche per interposta persona, dai soggetti cui furono confiscati». Ma dell’efficacia di questa specificazione non si dimostrano convinti neppure esponenti della stessa maggioranza, come l’onorevole Angela Napoli (ex An), che l’ha definita una “pia illusione”. Si rischia il paradosso per cui sia la mafia stessa a finanziare i Ministeri dell’Interno e della Giustizia, cui andrebbero divisi al 50% i proventi delle vendite. «Nessuno nega che ci possano essere delle eccezioni – ha spiegato il presidente di Libera, don Luigi Ciotti – ma se l’obiettivo è quello di recuperare risorse finanziarie strumenti già ce ne sono, a partire dal “Fondo unico giustizia” alimentato con i soldi “liquidi” sottratti alle attività criminali, di cui una parte deve essere destinata prioritariamente ai famigliari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia». Dal canto suo, il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano sostiene che la vendita resterebbe “un’ipotesi residuale” e “riguarderebbe solo quei beni che non riescono ad avere la destinazione sociale”, come “ruderi e terreni incolti”. Resta però un mistero il modo in cui si intendono velocizzare le procedure perché tutti gli altri beni, quelli di valore, siano destinati entro i limiti stabiliti, mentre resta inascoltata la richiesta di istituire un’Agenzia nazionale che si occupi di tutte le fasi di destinazione. Al momento i fatti dimostrano che a causa di ipoteche e impicci vari – ben noti ai boss – i beni non riescono ad essere assegnati, quindi per molti di essi l’unica prospettiva resterebbe la vendita. Con evidente danno alla credibilità dello Stato, che finirebbe per restituire ai clan ciò che magistratura e forze dell’ordine hanno faticosamente sottratto loro.

Intanto il tam tam è già partito. Sono diversi gli esponenti del Pdl che si sono espressi contro l’emendamento, sottoscrivendo un’interrogazione bipartisan per il suo ritiro. Tra i primi firmatari Walter Veltroni (Pd), Fabio Granata (vicepresidente della commissione antimafia, di area finiana), Ferdinando Adornato (Udc) Leoluca Orlando (Idv), Laura Garavini (Pd), e Mario Tassone (Udc). L’associazione Libera ha lanciato una raccolta firme che ha già raccolto 35mila adesioni e nella mattina del 24 novembre ha organizzato un’asta simbolica. Nella stessa direzione si è mossa Avviso Pubblico, la rete di 180 enti locali impegnati in azioni di prevenzione e contrasto all’infiltrazione mafiosa, mentre si moltiplicano gli ordini del giorno di Regioni, Province e Comuni contrari all’emendamento. Sono poi più di trecentosessanta i familiari di vittime di mafia che hanno sottoscritto una lettera indirizzata ai presidenti della Camera e della Commissione antimafia e ai capigruppo alla Camera.

Ma il punto è ancora un altro. Dicevamo che la norma è un colpo di spugna allo spirito della legge 109 del 1996, approvata all’unanimità dal parlamento e voluta da un milione di cittadini che ne firmarono la proposta. Legge che prevede la restituzione alla collettività di ciò che le è stato sottratto con la violenza e che ha consentito la nascita di tante importanti esperienze di riutilizzo sociale dei beni, tra cui le cooperative che oggi producono pasta, vino, olio e altri alimenti biologici sui terreni che furono di boss del calibro di Riina e Provenzano e che ha positivamente “contaminato” territori pesantemente segnati dal potere dei clan.
L’introduzione, in questi termini, di una norma che apre alla vendita indiscriminata dei beni sulla base di una scadenza temporale, glissa sul valore etico della loro restituzione alla società. Apre una frattura tra lo strumento repressivo e l’impegno culturale del contrasto alle mafie. Mette in contrapposizione le richieste legittime di fondi da parte dei comparti della sicurezza e della giustizia da un lato, e i percorsi di crescita sociale e culturale che dovrebbero accompagnare l’azione repressiva dall’altro. Ogni volta che un bene non sarà venduto si correrà il rischio di strumentalizzazioni, salterà fuori qualcuno pronto a leggere la destinazione sociale dei beni come uno sperpero di denaro, indicando invece come “più utile” il suo dirottamento sugli strumenti del contrasto “armato”: per finanziare la cattura di un nuovo latitante o per comprare nuove macchine alla polizia. L’approvazione di questa norma rischia di essere il primo passo per la chiusura di una stagione che ha fatto del coinvolgimento dei cittadini un credibile e significativo baluardo contro il consenso mafioso. Sappiamo tutti che la lotta alla criminalità organizzata passa anche, necessariamente, attraverso un cammino di crescita collettiva. Non è l’idea estemporanea di qualche associazione. Tutti ricordiamo le parole di Paolo Borsellino la notte in cui migliaia di fiaccole accesero il cielo di Palermo, a un mese dalla strage di Capaci: «La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà». La ripetono tutti, ad ogni celebrazione o anniversario. Speriamo la ricordi anche il Governo.

Elena Ciccarello


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