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Alberto Cairo lavora per il Programma Ortopedico del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Afghanistan
23.04.2009
Quando arrivai a Kabul nel 1990, Latif fu l’ insegnante-guida che mi fece conoscere il paese. Grazie a lui imparai a evitare errori grossolani e a guardare un poco oltre le apparenze. Una sera, drammatico, annunciò che avrebbe parlato della più grande tragedia dell’ Afghanistan. Pensai a guerra, povertà; alla geografia del paese, che lo vuole attorniato da vicini-nemici. "Le etnie sono la nostra rovina," disse invece solenne. "Etnie forti voglion dire stato debole", spiegò alludendo allo sfasciarsi del potere centrale allora in atto e al sorgere di fazioni mujahiddin e signori della guerra. "Un circolo vizioso: se leggi e governo non ti proteggono, ti rifugi in clan e tribù, rendendo lo stato ancora più diviso e impotente". Consigliava di sempre osservare l’ equilibrio etnico assumendo personale nuovo in ospedale. Ora l’ Afghanistan è in mille frazioni, con gruppi, clan, e sottoclan. Ogni individuo ha obblighi verso il proprio gruppo, fatto di parenti più o meno stretti, e dal gruppo riceve in cambio sostegno e difesa. Quando Latif disse di conoscere per nome quattrocento parenti, provai a contare i miei, senza arrivare a trenta. La tradizione, proseguì, voleva pashtun per comandare, tajiki per amministrare, hazara per servire. Che pashtun fossero tutti i re (tranne uno nel 1929), tajiki i più attivi impiegati negli uffici governativi e silenziosi hazara dai tratti orientali i migliori domestici, lo provava. Senza generalizzare, le sue parole sono ancora tristemente valide. Hazarà e tajiki poveri chiedono e accettano qualsiasi lavoro, anche pulire i bagni; i pashtun, persino quelli senz’ arte nè parte, no. Se uno chiede loro "che vorreste fare?", rispondono sicuri: "i controllori". Alle ultime elezioni, molti afgani hanno votato in base all’ etnia. Decidere il capo dello stato scegliendolo in base a ciò che mina lo stato stesso è una contraddizione.
Alberto Cairo
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